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“Una nave italiana è un pezzo d’Italia, essa deve rappresentare gli aspetti superiori e di maggior prestigio del gusto, della cultura, delle arti, dell’artigianato italiani. Essa non è solo un mezzo di trasporto per il turismo in Italia, ma qualcosa di più. Essa deve essere … una documentazione emozionante del clima culturale, civile e umano del nostro Paese. Il turismo deve imparare l’Italia sulla nave.”
Il 21 marzo 1950 sul “Corriere della Sera” Gio Ponti firmava un articolo – Occorre che sui nostri bastimenti gli stranieri imparino l’Italia – che può considerarsi un manifesto di quell’idea di italianità che con sorprendente continuità ha indirizzato sin dal 1923 (gli anni dell’esordio con la Richard Ginori) la sua convinzione del primato italiano nell’arte e nell’artigianato. Non per niente, il suo ricorrente aforisma – “basta essere Italiani” – fu esemplificato nell’editoriale con cui nel 1928 dava il via al primo numero di “Domus”: La casa all’italiana.
Autore degli allestimenti di prestigiosi transatlantici (Giulio Cesare, Andrea Doria, Conte Biancamano, Conte Grande ecc.), Ponti li aveva concepiti come case galleggianti, addirittura, piccole città in movimento con luoghi di ritrovo come le sale da pranzo, da ballo, da intrattenimento, per le quali aveva chiesto la collaborazione dei suoi amici artisti, perché testimoniassero con la loro presenza la vivacità della cultura italiana.
Ha collaborato con i souoi amici artisti - da Fontana, Fiume, Funi e Campigli agli “artigiani” artisti come Fornasetti, Ruj, Gambone ecc.
Sarebbe troppo riduttivo ricondurre questa sua generosa ossessione alla nozione corrente di made in Italy: per Ponti, infatti, l’espressione della creatività italiana non era un marchio e certamente non un brand, ma la diretta conseguenza di un’attitudine del carattere (e della storia) che coincideva con la nozione stessa di civiltà. L’aveva affermato a chiare lettere nella direzione della V Triennale del 1933 (slogan “Arte e Civiltà”), l’aveva ribadito su “Stile” nella tragedia del dopoguerra (“Artigianato e industrie d’arte sono risorse tipiche e tradizionali. Noi dobbiamo valorizzare tutte queste risorse.”) e lo rinforzerà nel decennio successivo con una miriade di iniziative che includono, oltre all’opera di divulgazione dello “stile italiano” su “Domus”, di cui era ritornato al comando, la collaborazione con aziende americane del design, come M. Singer & Sons, Altamira e poi Knoll International, con la svedese Nordiska Kompaniet, con la francese Christofle, con la tedesca Krupp.
Ma soprattutto, Ponti considerò la sua opera come testimonianza vivente e diretta dello spirito creativo italiano: la villa Planchart a Caracas fu subito battezzata “villa Fiorentina”, l’Istituto Italiano di Cultura nella capitale svedese “una piccola Italia a Stoccolma”. Entrambi gli edifici – fortunatamente quasi integri rispetto al programma originario – furono disegnati secondo lo spirito dell’“opera d’arte totale”: non semplici contenitori di arredi, ma congegni minuziosamente pensati in ogni loro singolo elemento. In particolare, a Caracas Ponti convogliò un’incredibile varietà di materiali e di oggetti (compresi quelli d’arte) che dovevano rappresentare la ricchezza dell’ingegno italiano e la precisione delle industrie nazionali. La sua fortuna all’estero – che in quei due felici decenni degli anni ’50 e ’60 si estese dalle Americhe all’Europa (grandi magazzini Bijenkorf a Eindhoven, Paesi Bassi), al Medio Oriente (villa Nemazee a Teheran e il Palazzo governativo a Baghdad), all’Estremo Oriente (edifici amministrativi a Islamabad, in Pakistan, la villa per Daniel Koo e la facciata dei grandi magazzini Shui-hing a Hong Kong) – contribuì a focalizzare l’attenzione internazionale sull’Italia, portando alla ribalta il design nazionale, da allora riconosciuto nel mondo come il più efficace strumento di diffusione di un gusto e di una cultura strettamente legati all’Italian way of life.
Nel 1947 Gio Ponti progetta una “camera da letto per uno scapolo”, presentata prima alla Galleria del Sagrato, poi alla RIMA – Riunione Italiana Mostre per l’Arredamento – presso la Triennale, entrambe a Milano, e infine alla XVI Mostra Internazionale di Barcellona nel ’48. Tra gli arredi che compongono la camera, vi è anche una piccola consolle/ scrittoio, modello D.847.1, interamente in noce nazionale e puntali in ottone.
La linea di tutti gli arredi della camera è moderna, slanciata, quasi aerea. In particolare, lo scrittoio si connota per il piano con terminali curvati, che assomiglia a un’ala d’aereo, e per il piccolo cassetto sottostante con frontale arrotondato – una vera novità, che diventerà poi un segno distintivo di molte produzioni Ponti degli anni seguenti. Dopo oltre 70 anni dal progetto originale, la consolle D.847.1 rinasce grazie al progetto di riedizioni Heritage Collection di Molteni&C, in collaborazione con i Gio Ponti Archives.
Progettata nel 1954, il nome Round D.154.5 deriva dalla forma arrotondata della seduta e degli schienali, detta “a saponetta”. Ha forme modernissime addirittura “spaziali”, mai pensate prima. Questa poltroncina utilizza per la sua costruzione materiali e tecnologie d’avanguardia per l’epoca, come l’uso della Vipla (materiale plastico a imitazione della pelle) per i rivestimenti, compensato curvato per fissare tra loro lo schienale e la seduta, e piedi in metallo con puntale antiscivolo facilmente assemblabili.
. Round D.154.5 viene definita, nell’ambito dello studio Ponti/ Fornaroli/ Rosselli, anche “Otto Pezzi”. Infatti, sono otto i pezzi che la compongono: schienale, seduta, due elementi in compensato curvato e quattro gambe, che avvitandosi alla seduta tengono assieme il tutto. Un prodotto totalmente nuovo, pensato per l’industria, dove si parla di assemblaggio, facilità di produzione, ma anche di imballo, con la soluzione di ridurre al minimo gli ingombri e il trasporto. Dopo oltre 60 anni dall’idea originale, Round D.154.5 rinasce grazie al progetto di riedizioni Heritage Collection di Molteni&C, in collaborazione con i Ponti Archives.
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